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Vagli a spiegare che è Primavera

Mo.Li.Te. – Movimento per la Liberazione dalla Tecnocrazia

Un anno dopo il Decreto della Liberazione 2020

«È una società di persone sole, di consumatori bulimici, di spettatori assuefatti dagli orizzonti corti e frammentati»

Alexander Langer

Sono passati un anno, due Pasque e due Equinozi di Primavera dal grande confinamento che ha rivelato l’essenza dell’epoca che stiamo vivendo, la globalizzazione capitalista dell’inizio del terzo millennio.

Quando abbiamo deciso di scrivere un fantascientifico Decreto della Liberazione, a ridosso del 25 aprile 2020, venivamo già da anni difficili in cui spesso avevamo dovuto fare scelte forti per continuare a sopravvivere, e magari continuare a portare avanti i nostri sogni, senza che venissero fagocitati dall’aziendalizzazione delle esistenze che la tecnocrazia, con tutti i suoi strumenti di finto progresso, ci aveva imposto.

Avevamo già visto, da anni, distruggere comunità e territori, alienare noi e le generazioni più giovani con troppa inutile vita virtuale, impoverire i linguaggi e le culture umane, saccheggiare popolazioni e inferocire le relazioni umane.

Venivamo dalle strade di Genova del luglio 2001, dalle lotte No Tav e No Tap, dallo zapatismo, dalla decrescita, da esperienze comunitarie, da gruppi di autocoscienza, da decenni di economie alternative tentate e a volte riuscite, ma anche da percorsi personali di crescita, da rivoluzioni dello stile di vita, da convivenze e condivisioni di vario tipo, insomma da fratellanza e sorellanza tentata e più o meno riuscita in mezzo al deserto di socialità che ci stavano facendo intorno.

Venivamo da parole che ci risuonavano nella mente e nel cuore da tempo: cambiare il mondo senza prendere il potere, prendersi cura di sé e del mondo, “votare” ogni volta che si fa la spesa, essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo. Andare verso un altro mondo possibile.

Sapevamo che non si trattava più di aspettare un sol dell’avvenire.

Si trattava di fare un’altra vita, qui ed ora.

 

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza

Disobbedire e disertare il capitalismo, il patriarcato, il potere secolare e millenario arrivato al capolinea violento della globalizzazione, non era una cosa facile. Si trattava di mettere in discussione un po’ tutto. E non a parole. Si trattava di partire dal fondo del fondo del pozzo, non semplicemente cambiare supermercato, passare da quello cattivo a quello buono, da quello sporco a quello green.

Significava mettere in discussione il sistema dentro di sé: quello fatto di tempo che non c’è, fatto di fast food e pervasività della chimica, fatto di medicine per mettere le toppe alle ansie e agli scompensi immunitari, fatto di relazioni false che ti scappano di mano, fatto di denaro diventato ordine simbolico di tutto l’esistente. Di isolamento sociale, di nevrosi e psicosi. In una parola, di infelicità.

Significava cambiare nel profondo: uscire dagli slogan della vecchia sinistra novecentesca senza incappare nelle sirene del nuovismo capitalista tecnocratico e scientista, per mettere al centro la relazione con sé stessi, con le altre e gli altri, con il resto del mondo. E sapevamo che non era facile.

Significava mettere in discussione il modo in cui facevamo la spesa, il modo in cui lavoravamo e producevamo ricchezza e povertà, il modo in cui ci muovevamo, il modo in cui educavamo e anche il modo in cui ci curavamo: tutte queste forme necessarie di esistenza erano state ed erano ancora parte integrante dei meccanismi di potere da cui eravamo stati colonizzati nella nostra crescita consumista.

Decolonizzare l’immaginario significava andare nel profondo dei nostri meccanismi inconsci, e non bastava dirlo per riuscire a farlo: occorrevano percorsi profondi, lenti, duri di liberazione.

Forse una cosa però non l’avevamo messa in conto nel grado giusto: la ginnastica d’obbedienza che avrebbero continuato a praticare tutte quelle e quelli talmente impauriti dall’uscita dai binari, da accettare persino l’impossibile piuttosto che guardare in faccia la realtà. Accettare persino una vita disumana. Persino il bavaglio permanente, la vita perenne davanti a uno schermo, la paura fisica dell’essere umano.

Ha scritto il filosofo Giorgio Agamben, qualche giorno fa:

«Qual è la figura della nuda vita che è oggi in questione nella gestione della pandemia? Non è tanto il malato, che pure viene isolato e trattato come mai un paziente è stato trattato nella storia della medicina; è, piuttosto, il contagiato o – come viene definito con una formula contraddittoria – il malato asintomatico, cioè qualcosa che ciascun uomo è virtualmente, anche senza saperlo. In questione non è tanto la salute, quanto piuttosto una vita né sana né malata, che, come tale, in quanto potenzialmente patogena, può essere privata delle sue libertà e assoggettata a divieti e controlli di ogni specie. Tutti gli uomini sono, in questo senso, virtualmente dei malati asintomatici. La sola identità di questa vita fluttuante fra la malattia e la salute è di essere il destinatario del tampone e del vaccino, che, come il battesimo di una nuova religione, definiscono la figura rovesciata di quella che un tempo si chiamava cittadinanza. Battesimo non più indelebile, ma necessariamente provvisorio e rinnovabile, perché il neo-cittadino, che dovrà sempre esibirne il certificato, non ha più diritti inalienabili e indecidibili, ma solo obblighi che devono esser incessantemente decisi e aggiornati.»

Quel che dirà di me alla gente

Nell’anno che è passato, più o meno dall’Equinozio della Primavera 2020, abbiamo visto esplodere tutte le micce che erano state accese nei decenni precedenti. Abbiamo visto topi umani in trappole virtuali farsi la guerra tra di loro su cose che non conoscevano, ma di cui credevano di avere conoscenze certe in quanto dette dagli esperti. Abbiamo visto donne e uomini, cantanti, politici, compagne e compagni, membri di associazioni e movimenti, intellettuali progressisti, giornalisti, uomini e donne di spettacolo, cantanti, attrici, influencer e tutti i membri della società civile evoluta, regredire allo stadio di odiatori seriali nei confronti di qualsiasi critica che venisse mossa alla narrazione unica, a reti unificate, incessante, ossessiva, psicotizzante e insopportabile, che riguardasse la gestione dell’emergenza epidemiologica da covid 19.

Abbiamo visto noi stesse/i perseguitate/i in tutti i modi possibili, su qualunque fronte, reale o virtuale che fosse, da orde di paranoici. Abbiamo visto sbagliare cure, impedirne altre, imporne altre ancora e silenziare qualsiasi voce possibile che deviasse anche minimamente dai sedicenti professionisti dell’informazione. Nonostante nessuno di noi abbia mai negato le sofferenze vissute dalle persone: ma di sofferenze ce ne sono state di vario tipo, tante, troppe, e la maggior parte si sarebbero potute evitare se non fossero state le multinazionali capitaliste a gestire il potere del sistema internazionale. Ma questo naturalmente era impossibile, dato che già le multinazionali capitaliste governavano la politica globale. Per questo, se prima un altro mondo era possibile, poi è diventato necessario, poi è diventato emergenza, ora è diventato l’unica possibile via di salvezza.

Abbiamo visto nascere una task force governativa dell’informazione, formata dai peggiori giornalisti in circolazione, l’abbiamo vista dirigere e imporre come unica e grande paura quella delle fake news, dei complotti, mentre veniva fornita una delle versioni più false, antiscientifiche e vergognose, di un evento sanitario, che la storia umana ricordi.

Abbiamo assistito, in sintesi, a quello che un anno fa nemmeno noi volevamo accettare: l’affermazione di una inedita, sui generis, innovativa e raffinatissima dittatura diffusa su scala globale.

Non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni

«Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell’anima umana?»

Eduardo Galeano

Non è stato un caso che proprio la società civile progressista, proprio quella che ha ascoltato De André e letto Pasolini e Gramsci, quella che è cresciuta con i valori giusti, i valori della resistenza alla barbarie del potere, fosse l’obiettivo sensibile principale della dittatura globale fondata sullo scientismo tecnocratico.

Si trattava, già da quel lontano fine millennio in cui si stava costruendo il nuovo potere occidentale delle multinazionali, di mettere definitivamente in soffitta i vecchi e inutilizzabili strumenti di oppressione: dittature classiche, squadrismi, intolleranze religiose, morali bigotte. Questi strumenti non funzionavano più, non avevano più presa nei confronti di una società a cui era stato concesso tutto, e anche troppo, compresa la possibilità di studiare.

C’era un’ultima arma che il potere occidentale poteva usare, l’arma finale: il distacco totale delle menti dai corpi, la frattura definitiva delle parole dalle cose.

Grazie a quest’arma, i peggiori oppressori avrebbero potuto senza problemi imporre qualsiasi obbligo, qualsiasi business, qualsiasi violenza, mentre contemporaneamente promuovevano a parole diritti civili, antirazzismo, parità di genere, sviluppo sostenibile e fratellanza tra i popoli.

Qualunque destra violenta, usando i termini della sinistra, avrebbe potuto prendere il potere.

La disinformazione onnipresente avrebbe sancito il distacco definitivo della realtà virtuale dalla realtà vera.

L’infodemia avrebbe reso possibile l’impossibile.

Ha detto il premio nobel per la Fisica Richard Feynman:

«Il problema non è che le persone siano ignoranti. Il problema è che le persone sono istruite quel tanto che basta per credere a ciò che è stato loro insegnato e non abbastanza istruite per mettere in dubbio qualsiasi cosa di ciò che è stato insegnato loro».

Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame

C’è un piccolo particolare ineludibile e refrattario alle dinamiche di potere, tuttavia: la realtà vera nel frattempo esiste ancora.

Esistono i corpi, esiste la terra, esistono bambini e ragazzi che non ce la fanno più, pance e tasche vuote, abbracci che si danno clandestinamente, fughe in campagna, sesso, amore, amicizia, paesi, città, popolazioni, che per quanto disperate, alienate e saccheggiate, raggirate e ancora incapaci di comprendere gli obiettivi verso cui rivolgere il proprio malessere, sono lì. Si svegliano la mattina e devono passare la giornata, e non sempre l’ipnosi tecnologica, l’accanimento terapeutico per sedare il panico e la schiavitù lavorativa dello smart working, riescono a silenziare.

La realtà è imprevedibile, la vita è un’avventura, il mondo è bello: è quello il problema. Quando non si ha da mangiare, se altro non si può fare, si ruba. Si rubano cene con gli amici, baci e abbracci, scorte dai supermercati, per chi non è ancora riuscito a tornare verso le autoproduzioni e le economie locali, cioè la maggior parte della popolazione occidentale.

In questa situazione, potrebbero scoppiare perfino i templi della civiltà industriale consumista: le città e le metropoli.

 

Imprigionarli durante l’ora di libertà

Ci avete chiesto in tante e tanti, subito dopo la pubblicazione del nostro “Decreto” e dopo anche le “FAQ”, di fare qualcosa. Di creare reti, di fare un movimento vero nella vita reale, a volte anche di partecipare a percorsi collettivi di crescita evolutiva, di pensare ad ecovillaggi, comuni e quant’altro.

Non potevamo farlo, e per un semplice motivo che ora, finalmente, vi spiegheremo: semplicemente, lo stavamo già facendo.

Le circa 10-15 persone che si sono coinvolte nella genesi del Mo.Li.Te., che hanno scritto o anche solo letto e discusso, ma anche le altre che sono state accanto a queste 10-15, come probabilmente molte di voi che avete sentito risuonare dentro le loro parole, sono già impegnate in uno o più territori a cercare di resistere a tutto questo e a tenere in vita la vita.

Quello che abbiamo fatto è stato solo creare un riflesso collettivo di quello che stava succedendo, di bisogni emergenti che sapevamo benissimo esistere anche se facevano e fanno fatica a trovare spazio di dicibilità pubblica: quello che sentivate voi, cioè che questo non bastava, che non bastava incontrarsi online, che stava succedendo qualcosa di tremendo che andava contrastato, lo sentivamo anche noi. Ma non potevamo fare niente di più di quello che abbiamo fatto, e per un semplice motivo: quello che abbiamo fatto è stato innanzitutto metterci in discussione, in connessione, in relazione. Seppure all’inizio solo virtualmente, ma era comunque quello che potevamo fare con quello che potevamo avere in quel momento.

Le energie innescate dentro di noi e tra di noi un anno fa, sono servite principalmente a noi, a sopravvivere, perché le energie sono importanti, e quando le energie finiscono ci si ammala: era questa la cosa principale, non ammalarsi. Anzi, iniziare a guarire: nel corpo, nella mente, nello spirito e nelle emozioni, che poi fanno parte di un’entità unica che ognuna e ognuno di noi è. Perché noi non siamo macchine, come vorrebbe invece la vecchia mentalità ottocentesca riduzionista ancora in auge.

 

Siete per sempre coinvolti

Ora non è come allora. Ora sono passati un anno, due Pasque e due Equinozi di Primavera ed è molto più chiaro il fatto che tutto questo non finirà. Continueranno a psicotizzare le masse con il bastone e la carota, come senza vergogna è riuscito a dire solo qualche giorno fa uno dei tanti pagliacci televisivi scambiati per luminari della medicina («non solo bastone, ora ci vuole la carota»).

Ma ora non è più nemmeno come all’epoca delle manifestazioni, dei movimenti di massa, e non lo è più da decenni ormai: la massa è disgregata e si violenta al suo interno, si auto-massacra online tra i commenti dei social network ogni giorno, dove ognuno vede l’altro come un nemico contro cui gettare frustrazioni. È impossibile pensare ad una reale resistenza di massa in questo scenario.

Bisogna prima ricostruire questa possibilità, sfruttando le occasioni che ci sono, che possono essere tante. Un esempio? Luglio 2021 a Genova. Per riprendere il filo interrotto dell’altro mondo possibile. Ad esempio.

Ma dobbiamo tornare principalmente alla vita, riprendercela e non farcela concedere.

Non è impossibile riunirsi, trovarsi.

Alla luce del sole o clandestinamente.

Tirando dentro chiunque condivida quello che noi pensiamo di aver visto.

Qualunque sia la sua professione, propensione, produzione, di pensieri o di oggetti, di arnesi o teorie, di note o colori, qualunque sia il contributo e qualunque sia il modo di aggregarsi.

Non aspettate che siamo noi a dirvelo, ditecelo voi: dove ci troviamo? Quando?

In un posto o in cento posti? In campagna? Al mare? In città? In montagna?

Invitateci, organizzate assembramenti, adunate sediziose, circoli di autocoscienza, feste e baccanali, banchetti crudisti, serate di esplorazioni erotiche, qualunque cosa che ci faccia urlare al mondo e alle stelle che siamo vive e vivi.

Non importa che siamo tutte e tutti in un posto, disseminiamoci e germogliamo.

Se sarà utile e se ci saranno le energie, terremo una mappa di possibili luoghi liberati e la faremo circolare.

Il Mo.Li.Te. – Movimento per la Liberazione dalla Tecnocrazia, se deve continuare ad esistere, siete voi, insieme a noi.

Continuate a leggerci qui sopra, e se avete qualcosa da proporci, scriveteci.

Partiamo da noi senza farci trovare. E ci troveremo.

Fuori dalla guerra psichica del potere.

La vita è altrove.

***

molitemovimento@gmail.com

molitemovimento.wordpress.com

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Il titolo principale, i titoli dei paragrafi di questo testo e le parole scritte su un muro di Genova riportate nella foto qui sotto, fanno parte del brano di Fabrizio De Andrè: «Nella mia ora di libertà»

Cose viste

di Julien Coupat et alii – da Qui e ora

Abbiamo visto abolita con uno schiocco di dita la libertà più elementare delle costituzioni borghesi – quella di andare e venire.

Abbiamo visto un presidente pretendere di regolare dall’Eliseo i «dettagli della nostra vita quotidiana».

Abbiamo visto un governo promulgare dall’oggi al domani delle nuove abitudini, la maniera corretta di salutarsi e anche promulgare una «nuova normalità».

Abbiamo sentito trattare i bambini come delle «bombe virali» – e alla fine no.

Abbiamo visto un sindaco vietare di sedersi più di due minuti sulle panchine della «sua» città e un’altra proibire di comprare meno di tre baguette per volta.

Abbiamo ascoltato un professore di medicina depresso parlare di «forma di suicidio collettivo per se stessi e per gli altri» a proposito di giovani che prendevano il sole in un parco.

Abbiamo visto un sistema mediatico perfettamente sconsiderato tentare di riguadagnare un po’ di credito morale attraverso la colpevolizzazione di massa della popolazione, come se la resurrezione del «pericolo giovani» avrebbe prodotto la propria.

Abbiamo visto 6000 gendarmi delle unità di «montagna» appoggiati da degli elicotteri, dei droni, dei fuoribordo e dei 4X4, lanciati in una caccia nazionale ai passeggiatori sui sentieri, sui bordi dei fiumi, dei laghi – senza parlare, evidentemente, dei bordi del mare.

Abbiamo visto i polacchi in quarantena spinti a scegliere tra fotografarsi a casa propria su di una applicazione che combina geolocalizzazione e riconoscimento facciale o ricevere la visita della polizia.

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Complottismo e dissenso

di Elisa Lello (*) – da Comune-info

Era convinzione diffusa che, con l’esperienza della pandemia, lo scetticismo e i timori nei confronti dei vaccini si sarebbero ridotti sostanzialmente, per lasciare posto a sentimenti di attesa e speranza. Qualcosa, tuttavia, è andato storto. Mentre arrivano notizie circa percentuali importanti, nelle varie Asl dislocate sul territorio, di personale sanitario e delle Rsa che non intende sottoporsi a vaccinazione anti-covid, sappiamo, da un’indagine di EngageMinds HUB-Università Cattolica di Cremona, che, all’inizio di dicembre 2020, solo il 57 per cento degli italiani si dichiarava disposto a vaccinarsi. Anzi, il numero dei nostri concittadini disposti a sottoporsi all’inoculazione è diminuito rispetto ai primi mesi di pandemia, passando, secondo i dati Demos, dal 68 per cento di maggio 2020 al 59 per cento di ottobre, cinque mesi dopo1.

Per tentare di capire le ragioni del diffondersi di paure e scetticismo si punta il dito verso il dilagare del complottismo e di atteggiamenti riduzionisti/negazionisti e verso quei canali informativi alternativi accusati di essere i principali responsabili della diffusione delle fake news. La ricerca di Mapping Italian News (Università di Urbino) ha effettivamente calcolato che, dall’inizio alla fine del 2020, sono più che quadruplicate le interazioni collegate a contenuti negazionisti sui social network, mentre sono sestuplicati gli iscritti ai vari gruppi e pagine FB riconducibili alla stessa galassia generalmente definita complottista2.

Ciò che però suscita forse ancora più stupore è la reazione che si sta mettendo in campo di fronte a questo fenomeno complesso che si vuole indicare come “complottismo”.

Si dà per scontato, innanzitutto, che chiunque esprima valutazioni critiche, pur di tipo differente, circa la lettura dell’emergenza sanitaria in corso e le strategie di risposta elaborate appartenga a questa schiera. Altrettanto scontato appare che queste opinioni siano frutto di ignoranza quando non di idiozia. Le persone che le esprimono, cioè, non avrebbero risorse culturali sufficienti per comprendere la realtà e nella loro ingenuità finirebbero “nella buca” di narrazioni palesemente false, risibili, pericolose. Accanto a questo tema appare quello del menefreghismo, dell’egoismo spensierato, narcisistico, edonistico di chi non accetta restrizioni alla propria libertà perché si sente, individualmente, forte e invincibile, e non ha voglia di accettarle per il bene delle componenti fragili. Da qui, fiumi di inchiostro sulla deriva individualistica della nostra società, e “signora mia” ma quand’è che si sono spezzati i legami di solidarietà ed empatia e che siamo diventati così brutti, cattivi e insensibili all’altrui sofferenza e fragilità.

Ci sono forse alcuni elementi di verità in tutto questo. O quanto meno vorrei sgombrare il campo dall’equivoco che, siccome – come si sarà intuito – intendo mettere in discussione questa visione, allora con questo voglia dire che le versioni “complottiste” hanno ragione, o che, più in generale, la “verità” stia tutta necessariamente da una parte o dall’altra.

Il problema di fondo è che le visioni riassunte sopra si basano su un ampio e generalizzato “dare per scontato”. Mentre, su questi fenomeni, sappiamo ben poco. Peraltro, è un argomento scottante, nel senso che solo a sfiorarlo ci si brucia: è un attimo venire etichettati come “complottisti” se solo si prova a prendere sul serio – unico modo per comprenderlo – il fenomeno, i suoi contenuti, le ragioni del suo evidente successo globale.

Eppure, limitarsi, di fronte a un fenomeno di tali proporzioni, al biasimo, alla riprovazione e all’indignazione pubblica, ripetendo argomenti tanto abusati quanto privi di alcun riscontro empirico è una strategia non miope, ma proprio cieca. Che può andare bene per sentirci nel giusto, scaldati dall’abbraccio di chi come noi si arrabbia e si indigna e confortati dall’approvazione dei media mainstream e delle istituzioni, ma certo non per affrontare quello che sta accadendo. Quando, invece, avremmo bisogno di strumenti di comprensione e di analisi, che ci mettano all’altezza della sfida che abbiamo di fronte.

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Non abbandoniamo il desiderio di vivere insieme

di Francesca Cappelli (*) – Testo ripreso da Effimera

Ci sono romanzi che arrivano nella tua vita al momento giusto e ti aiutano a leggere una realtà complessa, attutendo il rumore di fondo, per riuscire a vedere le famose connessioni di montessoriana memoria. Questa lettura è stata per me “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie), un romanzo scritto nel 1985, che si inserisce nella linea delle utopie/distopie anglosassoni. Quella di “1984”, “Brave New World”, “Fahrenheit 451” e il saggio “The Rise of Meritocracy” (eh, già) di Michael Young, pubblicato in Italia con il titolo “L’avvento della meritocrazia” da Edizioni di Comunità, casa editrice fondata, guarda caso, da quel lungimirante di Adriano Olivetti, che proponeva un modello di impresa privata non basata sulla competizione a tutti i costi e sulla selezione, ma sulla cooperazione e il talento. Perché se si parla si meritocrazia, a restare fuori non sono tanto gli ultimi (dei quali si fa carico lo stato sociale, la Chiesa o qualche caritatevole ente di beneficenza), ma i penultimi. Ovvero, i “quasi adatti”, quelli che non “meritano” gli incentivi e gli scatti di carriera, ma giusto un salario alla sussistenza, che non possono ambire a comprare casa, mettere da parte qualche risparmio, concedersi il lusso di una vacanza se non con un volo low cost, di quelli che mandano in giro milioni di persone e tonnellate di anidride carbonica e contribuiscono all’effetto serra e alla diffusione di virus pandemici. Eh, già, pare che dovessimo aspettare il Covid-19 per scoprire che i consumi di massa sono insostenibili dal punto di vista ecologico e poco “meritevoli” da quello culturale.

Cosa c’entra tutto questo con il romanzo della Atwood? A prima vista niente.

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La nuova religione: la scienza come sovrastruttura

di Massimo Fioranelli *

Diceva Antonio Gramsci ne Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce:

“Le verità espresse dalla ricerca scientifica non sono verità assolute e definitive, ma sono approssimazioni storiche, e la scienza è un movimento in continuo sviluppo. Se infatti le verità scientifiche fossero definitive, ed acquisite definitivamente su un piano assoluto e metastorico, la scienza come tale avrebbe cessato di esistere. Si ha quindi che la scienza è una categoria storica; essa offre parametri di interpretazione della realtà che sono variati e varieranno con il variare delle epoche storiche (…) in realtà anche la scienza è una superstruttura, una ideologia. La scienza quindi non ha una sua validità assoluta, al di del tempo, ma rappresenta nella sua storia il riflesso dei rapporti di forza reali all’interno delle classi e dei modi di produzione”.

Che la scienza sia divenuta la nuova religione, una sorta di atto di fede incondizionato, lo percepiamo dalla deriva culturale del momento attuale. Nella storia della medicina, la vaccinazione antipolio si è dimostrata valida nella lotta contro la poliomielite, eradicando una malattia che in un caso su cento provocava gravi deficit neurologici, durante le ondate epidemiche degli anni 50.

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Tecnocrazia e pinkwashing

di Anna Simone* – Profilo


Mentre facevamo ricerca per scrivere “La società della prestazione” mi studiai tutti i programmi di management ideati dalla scuola McKinsey di Londra. Da loro viene tutto questo:

1) L’umano va capitalizzato, ogni lavoratore diventa una risorsa mercificabile, un brand da cui estrarre valore secondo il principio della concorrenza. Di qui il passaggio dall’organizzazione del lavoro alla “gestione delle risorse umane”.

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Anarchia, Fede e dipendenza dal Sistema

di Vito Mora – bucoquadrato


Parto da questa affermazione dolorosa:
“Chi più chi meno, tutti ci siamo cagati addosso”.

Rivoluzionari, Anti di qua e Anti di là, inneggianti alla lotta armata in Rojava, desiderosi di un’idea esagerata di libertà, nel momento in cui i duri dovevano entrare in gioco, i duri si sono spaventati.
Detta così non sembrerebbe niente di grave, ci sta che si abbia paura in certe circostanze; come si dice… è umano.
Io però ci trovo almeno due cose molto gravi da sottolineare in questa reazione, sulle quali NON si può NON riflettere.
Due cose gravi che toccano due temi che gli attivisti (a questo punto diventati passivisti), né prima né adesso, vogliono toccare: uno è il nostro rapporto con la sofferenza, la malattia e la morte e l’altro, non meno importante, la nostra dipendenza dal Sistema, sia conscia che inconscia.
I due temi sono, in questo periodo, ovviamente estremamente connessi, perché ciò che ci ha spaventato ce l’ha raccontato l’odiato Potere con i SUOI Media, con la SUA Scienza e i SUOI Governi, come d’altra parte il Potere ha sempre fatto, raccontandoci anche altre emergenze: per esempio l’emergenza immigrazione, così come la crisi finanziaria, lo spauracchio Spread, ma anche l’abbattimento delle Torri gemelle, Bin Laden, la guerra in Iraq, etc. etc.

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Mai più come prima! Insieme per la società della cura

Per una società della cura – Immagine: Caos I di Eduardo Alcoy, tratta da galerias-arte.com
 
🟢 LA SOCIETA’ DELLA CURA. APPELLO 🔴
 
 
L’assemblea si svolgerà in due sessioni: la mattina dalle 11:00 alle 13:00 e il pomeriggio dalle 14:30 alle 17:30.
 
 
La pandemia ha messo in evidenza come un sistema basato sul pensiero unico del mercato e sul profitto, su un antropocentrismo predatorio e sulla riduzione di tutto il vivente a merce non sia in grado di garantire più alcuna protezione. Niente potrà essere più come prima, perché è proprio quel modo di pensare e di vivere che ci ha condotto al disastro e continua a minacciare il pianeta e le vite (umane e non) che lo abitano. Il dilagare del virus ha mostrato in modo evidente tutta la precarietà dell’esistenza, la fragilità e l’interdipendenza della vita umana e sociale ma anche quali siano davvero le attività essenziali, a cominciare dalla solidarietà tra le persone. “Uscire dall’economia del profitto. Costruire la società della cura” è un manifesto, proposto da molti gruppi, associazioni, reti e movimenti per indicare un possibile percorso comune al fine di porre termine ad ogni politica di dominio nelle relazioni fra i popoli, facendo cessare ogni politica coloniale, che si eserciti attraverso il dominio militare e la guerra, i trattati commerciali o di investimento, lo sfruttamento delle persone, del vivente e della casa comune. Abbiamo bisogno, invece, di una società che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni. I gruppi che hanno promosso il manifesto (cui si può aderire scrivendo all’indirizzo che trovate qui sotto) propongono anche una grande manifestazione da tenersi in questo autunno per rendere più visibile e ampio il percorso avviato
 

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Il diritto alla Primavera (CLAP)

Prima ancora di sapere chi siamo e dove stiamo andando, sappiamo però “con chi ce la facciamo”.

Abbiamo quindi deciso di fiancheggiare il CLAP – Comitato per il Libero Accesso ai Papaveri, sia perché sappiamo che non è tutto rose e fiori (ma anche papaveri), sia perché il MoLiTe partecipa – secondo la teoria della metessi platonica – al CLAP, non solo in alcune sue idee, ma anche in alcuni suoi elementi umani.

Questo il loro comunicato, che ha accompagnato l’azione diretta di ieri, 4 maggio 2020, al Parco Belloluogo di Lecce.

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Comunicato stampa – uscira’ il 25 aprile il decreto della liberazione

COMUNICATO STAMPA

IL 25 APRILE SARA’ LANCIATO NELL’UNIVERSO IL DECRETO DELLA LIBERAZIONE

 REDATTO DAL MO.LI.TE – MOVIMENTO PER LA LIBERAZIONE DALLA TECNOCRAZIA

Uscirà sul sito ufficiale molitemovimento.wordpress.com e su altri spazi web collegati

Per la stampa, si può richiedere il documento il anteprima all’indirizzo email:

molite.movimento@gmail.com

MO.LI.TE.

COS’E’ IL MO.LI.TE.?

Il “Movimento per la Liberazione dalla Tecnocrazia” è per ora il frutto delle riflessioni urgenti di un gruppo di persone che ha sentito la necessità di immaginare una via d’uscita dalla situazione d’emergenza causata dal Covid19, e in generale dalla globalizzazione neoliberista.

Il Decreto della Liberazione è il primo risultato di queste riflessioni. E’ un anti-decreto nato dal basso, che si smarca di lato rispetto allo stato emergenziale: serio e demenziale, profondo e ironico, circostanziato e situazionista, dice tutto quello che è urgente e necessario e di cui abbiamo necessità ora.

Le persone coinvolte condividono l’idea che la scienza, la cultura e la libertà siano beni preziosissimi messi in discussione da atteggiamenti di chiusura mentale e ingiustizia sociale, quali lo scientismo, la delega ai tecnici delle scelte politiche e gli interessi economici trans-nazionali che impoveriscono la vita dei popoli, nella fase del capitalismo che stiamo vivendo.

Le riflessioni e le proposte qui descritte raccolgono diverse esperienze politiche, tra cui: l’altermondialismo, lo zapatismo, il libertarismo, il femminismo, il socialismo, l’ecologismo.

La scelta del 25 aprile inoltre è simbolica perché richiama i valori della Resistenza a cui si rifà questo movimento.

Non siamo un’entità politica costituita, siamo letteralmente un “movimento” di idee e di corpi che ha bisogno di uscire dalla detenzione forzata dei pensieri e dei desideri.

Per informazioni:

EMAIL molitemovimento@gmail.com

SITO https://molitemovimento.wordpress.com/

FB https://www.facebook.com/molitemovimento/

TW https://twitter.com/MoliteMovimento

INTRO

Rilancio di una politica dei beni comuni e della partecipazione collettiva. Rinuncia al paternalismo e all’infantilizzazione comunicativa e politica. Riconoscimento del modello culturale tecnocratico come strumento di controllo sociale ed economico da superare dopo la fine della società neoliberista. 

I dieci punti che leggerete e che formano il Decreto della Liberazione mirano a togliere credito a qualsiasi dogmatismo o presunta verità oggettiva imposta dall’alto, favoriscono la pluralità delle idee in ogni accezione possibile, riconoscono a cittadine e cittadini la facoltà di scegliere per il bene loro, dei loro cari e della più ampia comunità, e mettono a loro disposizione beni e risorse di fatto pubblici.